Enrico De Lea, Cacciavento, Anterem, 2023

 Enrico De Lea, Cacciavento, Anterem, 2023

                                                                    (Qualche appunto)




  










  In una mia prossima pubblicazione su un inventario della poesia siciliana del Novecento, ho scritto come questa sia attraversata dal tema comune dell’appartenenza, sia fisica che psicologica, a una stessa terra. E’ una caratteristica che probabilmente la differenzia da tutte le altre letterature regionali rendendola unica, e questo malgrado la Sicilia sia sempre stata investita e attraversata da culture, mode, estetiche, filosofie, elementi di volta in volta amalgamati in una sorta di laboratorio linguistico per nulla pacificato ma sempre in collisione. Tra l’altro è possibile riscontrare nella geografia dei testi, connotazioni specifiche dei microterritori - il fenomeno modaiolo dei parchi letterari ne costituisce una conseguenza - . 
  E dunque una koinè poetica che si presenta come un mosaico di variazioni, eppure convergenti nel pensiero meridiano di un vasto Sud, forse mai assurto veramente ai fasti delle cronache letterarie.
  Premessa necessaria per comprendere i risvolti e le origini della poesia di Enrico De Lea, poeta dello Stretto e delle montagne, un entourage letterario riconoscibilissimo costituito da voci importanti - Longo, Crimi, Cattafi, per fare dei nomi - e che trova la sua punta emergente nella grande metafora dell’Horcynus Orca, il romanzo di Stefano D’Arrigo ambientato nelle acque dello stretto.
  “Cacciavento” è un titolo che si aggiunge agli altri di De Lea con coerenza tematica e stilistica. Dell’opera prima, “Ruderi del Tauro”, pubblicata con una mia prefazione, ha conservato la ruvidezza fonica della lingua, la scontrosità, unitamente agli elementi mitologici della propria biografia: le origini, i miti del territorio, il rapporto col padre, quel sentimento di attaccamento e di vasta dispersione battezzato, qualche tempo fa, col termine “sicilitudine”. 
  A tutti questi elementi mancava, forse, il più necessario, e cioè il dialetto, recuperato nel libro più recente di De Lea ma anche in manoscritti ancora inediti.
  Si veda di questi testi, e non solo, come il dialetto informi in paniera più o meno palese la lingua e la sintassi, fenomeno, questo, riconoscibile nella letteratura siciliana a partire dalla grande letteratura del verismo. L’effetto che se ne ricava è la sensazione di muoversi in un vasto ambiente naturale poco educabile dalle Leggi, sempre in rapporto, o dipendente, dalle forze di una natura selvaggia; pericolo che incombe alle porte della città, voce che abbruttisce la lingua reclamandone i connotati più profondi di forza lavica, di mistero delle origini.
  Leggendo De Lea, insomma, affiorano prepotenti alcune domande: che cosa succede quando ci rimane solo la lingua? La lingua si fa laboratorio, rinuncia, o si allontana dal reale? La lingua punge, s’inabissa nel reale, deformandosi? La lingua si allontana, si fa mito dell’imponderabile e del perduto? Questo eventuali processi di nuova “dizione” si palesano nella poesia di De Lea nell’immagine di un laboratorio in cui gli oggetti ritrovati sono tutti allineati e sottoposti alle trazioni di una lingua che vuole emergere, abbozzata, scorticata e scartocciata come ebbi a dire a proposito di “Ruderi del Tauro”. E’ il tentativo di riportare alla luce i frammenti di parole non più pronunciate, eppure ancora brucianti, scalfite e scolpite sulla dura materia di un libro di pietra, che, eppure, sfugge alle biblioteche dell’urbis per rintanarsi nelle caverne scontrose della sua origine.



Penso all’estrema santità dei lupi

Che annusano l’erbe d’alte campagne,

Che muti squarciano carni dei tempi cupi,

Che ululano dolore senza scuse e senza lagne.


*

Di quanto non sappiamo ci dirà forse

Un infinito padre jonico,

Ci dirà una madre d’amore senza pietà,

Una carne un nulla un tempio laconico.


*

Acconciati alle suppliche a un paesaggio,

All’ingresso del Tempio, usciti dall’inverno,

Alle anime-pietre, alle anime-piante, nel loro raggio,

A una costante invenzione dell’eterno.


*

    (mensor)

geometra delle nebbie, mensor tenebrarum,

frumentario fallito, ammassa in fosse

il bianco freddo, l’acqua impietrita delle nevi

sotto castagni inospiti, l’origano spicciato

ad Occidente, innalza un vano sguardo

alle poiane discendenti alle fontane,

all’uomo al passo, alle ombre sempre brevi


*


L’infinito treno meridionale

Traversa la nazione

Come dentro un male,

Scorge poi le fronde di ulivi

E il possibile bene dei vivi,

Omaggia paesi e colline

Luoghi minimi con castelli,

Non sosta più in un fatale nulla.

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