Marco Munaro, Figure da un bassorilievo, Il Ponte del Sale, 2025



Che cosa oggi intendiamo con la parola superficie? Direi esattamente il suo etimo: super (sopra), facies (faccia), e cioè la parte più appariscente di un corpo.

E’ una di quelle parole che più si addicono alla...superficialità del moderno in quanto ne segnalano l’aspetto più ludico e meno drammatico, il gioco banale e irrisorio in un gesto che esclude il pensiero; una posa, al limite innocente, ma che nulla chiede alla morale, all’etica, anzi, essa stessa morale ed etica del tutto mostrato, deriso col ghigno di Dioniso.

La superficie non ha bisogno di limiti, confini. E’ espansiva, trasgressiva, promette una facile gioia e mal sopporta i richiami. E’ parola moderna per antonomasia - si ricordi la superficie dello specchio d’acqua che fa innamorare Narciso, portandolo alla morte - . La superficie dichiara con sprezzo che il mondo è pesante e di questa pesantezza ne ha terrore. Sa che nulla può contro il mondo e quindi lo schernisce, lo ridicolizza.

Il nuovo libro di Marco Munaro riporta in copertina un bassorilievo. La scena che si vede è floreale e naturale: un’Eva beatamente coricata che con una mano raccoglie il frutto dell’albero, il viso appoggiato all’altra mentre un serpente, eretto davanti a lei, sembra quasi volerla inghiottire o stuprare. Sembra beatamente irresponsabile questa Eva, inconsapevole del gesto enorme che sta compiendo, ancora avvolta nel mistero e della luce dell’innocenza.

E dunque una superficie dove apparentemente avvengono cose lievi, superficiali, in cui la donna si mostra incapace di cogliere la responsabilità del gesto, della catastrofe. Si tratta di una figura che sta per inaugurare la Storia, la superficie apparente della Storia. O forse è consapevole dell’ultima festa, dell’ultima gioia.

Interpretazione assai libera di un’immagine, s’intende, ma prima volevo iniziare il mio commento così: i libri di Marco Munaro sono abitati da una grazia… E intendevo, della sua scrittura, la leggerezza apparente della struttura, la snella divisione in sezioni, l’alternarsi dell’elemento naturale, a volte consolatorio, con quello biografico serissimamente innestato nel dolore e nelle scene dell’infanzia. Dunque un testo che si scava una superficie, un gesto che presume un lavoro, un colpire decisamente con la punta, ma anche una delicatezza nel far emergere i particolari; un rompersi le mani con lo scalpello.

Ecco, dunque, abbozzata una chiave di lettura: la poesia scava, partendo dalla superficie festaiola del reale, fino a che lo scavo non mostri le crepe, i fiotti di un’acqua amara, le parole che non osiamo dire e forse nemmeno pensare. Ma soprattutto le parole che pensavamo non potessero nemmeno esistere.

In che modo Marco Munaro scolpisce il suo bassorilievo? Col tempo la sua parola si è affinata in leggerezza e parsimonia, usa uno scalpello a punta sottile, affilatissimo e dunque dolorosissimo. Un’immagine che mi viene in mente è la contrapposizione di due modi diversi di pensare la “scultura”: quella medioevale, del gotico maturo, tutta rifinita nei particolari, floreale, precisissima; quella moderna, monumentale, che si ferma alla bozza. Quali di questi due modi in Munaro? Non lo so. Ma si provi a leggere tutto il libro anche come esercizio di nudità lessicale per capire. Sicuramente è scavo, affondo, nelle poesie della prima sezione, parte ancora mancante del suo romanzo famigliare, come è detto nella nota. Le figure vengono sottratte alla vita, ai ricordi, persino all’ambiguità del ricordo, bloccate nei personaggi di un bassorilievo per essere contemplate e fermate come le figure delle costellazioni.

Ecco, dunque: Munaro lavora a scalfire la superficie carnascialesca del contemporaneo restituendole la scommessa che rappresenta; perché essa è il mondo, la pagina vuota del mondo che noi possiamo immaginare con la potenzialità delle armi del Bene o del Male.

Un’ultima annotazione riguarda l’erbario munariano, la sezione IN ERBIS SALUS. Medicamenta. Guarire. Ma qui il senso non riguarda specificatamente l’intruglio, spesso amarissimo. Si suggerisce piuttosto, un tornare al succo, dentro la corolla, come l’ape che sugge abbandonandosi ai profumi e alle trasparenze benefiche della casa/corolla. Un ritornare. Un ritorno all’essenza, ma, forse, anche all’assenza. E’ ancora il bassorilievo della copertina a restituirci il senso floreale del libro. La poesia ha il compito di cogliere l’essenza perché, dice Munaro nell’ultima sezione


Dixerint


La poesia è servire vincendo.


Sovverte il no e il sì.


Svela il mistero del male e della morte e ne fa un bene.


La sua fragilità è la sua forza.


Vivere per amore di ciò che no è stato ancora amato.


Ecco, allora, un ultimo tassello. E’ chiaro che il disvelare presuppone un percorso iniziatico di conoscenza: “L’orchidea tra la cucina e il soggiorno // è un oboe dalle dieci chiavi // che stanno per fiorire”.

Osservate queste chiavi/foglie: aprono percorsi verso la luce; aprono porte, ma sono anche chiavi musicali che scrivono una sinfonia, indicano il rigo musicale della vita dove, infine perdersi è ritornare per acqua: Om ad Po, (Uomo di Po)


Il tuo canto inciso su lamine

nel silenzio


è leggero e vola


dici: Soffia i semi della tua

sapienza del tuo amore


Om ad Po


tu aria io mare attorno al fuoco


la forma del mio sognare

in una vela


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