Marisa Liseo, Asimmetrie elementari, Macabor, 2025
Marisa Liseo, Asimmetrie elementari, Macabor, 2025
Mi sarebbe piaciuto far uscire questa recensione in una sede più degna del mio blog ma la vita a volte impone tempi e situazioni che non dipendono dal nostro volere. Anzi, penso sempre di più, come similmente la pensavano i Greci, che il nostro pensiero, quello che percepiamo, sia solo la punta emergente di un dire più vasto, offuscato, censurato dal mondo, continuamente a rischio di peccato e di sconfitta, persino di morte. Ciò che non possiamo dire per le strade del mondo è accolto dalla poesia, lingua per sua natura indefinibile, nel senso che abita i confini e nel senso che non può accogliere tutte le parole. Nel senso che, corteggiando il mondo, rimpiangendolo, finisce per abitare in una dimensione di utilità e di necessità.
Nella scrittura in poesia di Marisa Liseo si avverte chiaramente un afflato - che è poi anche affanno - un desiderio di portare qualcosa: un mazzo di fiori, un cielo azzurro, un’offerta, una preghiera. E’ una poesia che non si trattiene; meridiana, con tutte le caratteristiche della scrittura meridiana: non autocensurata, sincopata, contratta ma, piuttosto, grembo, cornucopia. Rimando, dunque, alla domanda quale debba essere la dimensione del poetare, posta da Marisa Liseo quasi come un grido:
Dove sono i poeti?
Qual è il senso di questa angosciosa richiesta? Di poeti, oggi, ce ne sono a legioni, dunque la richiesta sarebbe mal posta. Evidentemente, qui, si rimanda a un altro senso: dove sono i non letterati? Gli uomini che hanno ricevuto il dono della parola? E’ una richiesta di senso prima che di forma e lo si capisce dall’utilizzo di una forma lunga, fluviale, che, per afflato, finisce per varcare le soglie di una forma bastante a se stessa. E’ una poesia che assomiglia al canto di una madre che vede il mondo deperire davanti ai suoi occhi; farsi barbaro, invasato dalla logica del conflitto personale, delle guerre, della perdita di valori, della mancanza di umana pietà: “sogno che profuma d’avvenire / e di perdono di tutte le cose / tra l’alba e le stelle accese di vita”, (Sogno d’avvenire).
E‘ chiaro che oggi la poesia ha preso una brutta strada: si è messa addosso il vestito buono dei grandi sarti, spesso nascondendo la canottiera sporca. A suo modo ci riporta a una riflessione sull’utilità: serve a qualcosa? Che ce ne facciamo di tutte queste belle scritture? Sono in ascolto queste scritture? Marisa Liseo, col suo modo di scrivere completamente specchiato, sincero, ci porta a riflettere su un sentimento di necessità che, partendo dalla scrittura, investa il mondo. Crede che oggi, in tempo di guerra e di tramonti, non occorra maneggiare lo strumento polito della poesia. Che occorra, invece, quando si usa il cesello, rompersi le mani, farsi tagliare dalle schegge della tagliente ossidiana. La poesia è un’arma per il mondo.
E dunque; quando un poeta finisce per rivolgersi a Dio, dichiara, in fondo, una sconfitta. Chiede a Dio di ritornare a guardare l’umano, di alzare le mani per uno schiaffo o per una carezza. Spesso in questi testi Marisa Liseo denuncia la sua impotenza dichiarando di sentirsi “senza braccia”. Si paragona al cipresso, “il cipresso del sonno ostinato / alla cui riva siede dormiente / l’assente al vivo destarsi del giorno”, (Senza braccia). Cerca la presenza dell’altro, “Amico di rifiorita primavera / mi sei venuto incontro inaspettato / in questa brumosa sera d’autunno, (Amico). Sa che a volte, per ritornare, è necessario fuggire in forma di aquilone. Sa che il giorno finisce ed è un amico che porta la guarigione: “Così torno a te che curi / il mio povero cuore malato”, (Al termine del giorno). Sa che nel mondo c’è il male e sogna una guarigione. Prega. Cerca un minimo senso osservando scene umilissime, l’elementare mostrarsi di un cielo limpido, di un mare improvvisamente calmo. Insomma: quella cosa che un siciliano illustre, Giuseppe Antonio Borgese, chiamò Crepuscolarismo e un altro, totalmente sconosciuto, Tito Marrone, contribuì a fondare, ci dice ancora che la parola si poggia sulle cose come una polvere. Le impregna, è forse è la loro anima di polvere. Si tratta di un gesto che presuppone umiltà e silenzio, il piccolo fuoco ravvivato della brace piuttosto che l’arzilla fiamma che tutto scalda, illumina, e infine brucia.
Quale cuore, Signore?
Abiti ancora in mezzo a noi,
dalle nostre macerie edifichi
un rifugio in cui riposare
e col nostro sterco concimi
la bellezza unica d’ogni fiore.
Ma quale cuore incontrano
le tue parole messe in fila
mentre viaggiano nell’aria
e si spezzano agli incroci
per darsi ai quattro venti?
Non abbiamo occhi vigili
ai cinereo raggio della luna
per la tua parola fatta carne
dentro un giaciglio di cartone.
La colgo nell’ombra silenziosa
di un uomo col suo cane
alloggiato nell’atrio di un portone
sul retro di questa cattedrale.
Eppure speranza e amore
s’agitano nel mio cuore
perché passando l’Infinito
mi ha toccata.
Altrove
Ora che i percorsi sono distorti
lungo le nostre strade affollate
dal vacuo scorrere del tempo
e in mani forti e insanguinate
implode ogni disegno di pace,
andiamo altrove, mia poesia,
sento un desiderio che divora
nel sogno dentro il calice di vita
che porgi con cura alle mie labbra,
solcate da inquietudine e mistero,
per confortarmi con parole grate.
Ho fame della tua calda voce
nella luce mite del tramonto
perché mi sconvolge l’oscurità
di questo mondo disorientato
nel non veder le stelle scivolare
semplici sui giorni da raccontare
altrove, come nel primo bacio,
come solo l’amore sa immaginare.
Che dire? Cosa posso aggiungere dopo quello che hai scritto, caro Sebastiano? Dal mio cuore un grande GRAZIE!
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