Monica Messa, Una pistola al Luna Park, RP, 2024
Il titolo scelto per il libro potrebbe portare il lettore a immaginare una trama in chiaroscuro, da romanzo nero, metropolitano e, persino, per conseguenze, una certa velocità di stile, adatta all’azione breve, cinematografica. Conviene, dunque, leggere il testo dove è presente l’immagine della pistola:
Ho la felicità inceppata
come una pistola al Luna Park
- dieci colpi, cento lire -
era il prezzo della libertà.
Il crepuscolo è caduto
irrimediabilmente
su tutte le cose
e in questa nuova estate
si rintanano le lucciole.
Si tratta, insomma, della metafora di una condizione esistenziale.
L’immagine ci riporta all’ossessione centrale del libro e cioè il Dolore percepito sul proprio corpo e osservato con partecipazione sul corpo degli altri: “Sono spezzata // Spezzata in un punto / a metà della schiena”.
Questi, “altri” spesso sono chiamati fratelli, gente che si muove senza meta per le strade; donne soprattutto, ritratte nel loro essere e nel loro incedere. Non necessariamente emarginate ma semplici e con una storia regressa alle spalle:
Annarella
Troppo grande questo mondo
per le tue mani, bambina,
bastano appena appena per spingere
barchette di giornale.
Un passo, dall’asfalto alla sabbia.
Sorridi in debito di luce,
capelli nuovi di chemio
e il libero arbitrio in una falange.
Si tratta di un’indicazione di poetica in ci l’io si cerca nell’altro, non si trincera nel proprio singolo affanno e non chiude la porta.
La poesia di Monica Messa è baciata da una grazia tutta sua, un modo di fare gentile e trattenuto, senza quell’urlo che sempre rischia di ferire l’altro che non si può difendere. L’altro, il davanti a noi, interroga noi stessi, la nostra memoria, la causa di ciò che siamo diventati adesso. A volte le parole assumono il colore di lieve favola dell’infanzia, abitata da bambini cresciuti in fretta senza aver ancora chiuso i conti con la vita.
La bambina di rame e di miele
appende foglie alle orecchie
e si sente una regina.
Ancora non sa che le vespe
ricompensano i fichi con la vita.
Lo sfondo di questa poesia, è un nero dipinto nel presente e un azzurro preservato in qualche ricordo dell’infanzia. E poi c’è un terzo colore, uno che deve ancora avvenire e che solo il viaggio può evocare: “Stelle, stelle, stelle / polvere di brina caduta nel firmamento / cellule di vita nel plasma dell’infinito, / bottoni diamanti nei sul nero drappo / di velluto che racchiude lo spazio”.
I luoghi del presente sono luoghi descritti come non amati, a cui non si deve nulla; senza dolori, ricordi; freddi e asettici come “la tenda di una doccia / su cui scivola acqua saponata”.
Amo i luoghi che non amo.
Le mense e i tavolini in laminato,
i bagni tutti bianchi
con le salviette di carta riciclata.
I luoghi che non amo,
a cui non devo nulla.
Non devo essere felice,
in questi luoghi,
non devo divertirmi,
non devo piangere,
nemmeno pregare.
Posso annullarmi,
scomparire a me stessa e agli altri,
diventare trasparente, un fantasma.
Non c’è dolore in questi luoghi,
non ci sono ricordi,
solo la tenda di una doccia
su cui scivola l’acqua saponata.
La poesia, insomma, si configura come arma a doppio taglio: bisturi che affonda nella realtà, svelandola, ma anche nella propria stessa carne, rivelandone la fragilità e il desiderio di amore.
In una sequenza in corsivo del libro, Messa sembra coltivare un impellente desiderio di fuga. Appare un marinaio, le stelle, il silenzio, un treno che corre nella notte. Tutta la sequenza suggerisce un incontro mancato, conferendo alla parola quella dimensione di mancanza e attesa che sempre deve appartenere alla poesia. Ciò che resta è la descrizione di un paese. Non il pieno delle cose ma il loro sottrarsi.
Nel mio paese c’è un binario
e un passaggio a livello fra i ciliegi.
Vengono dalla città
e dai paese limitrofi
a suicidarsi.
Perché un paese ci vuole,
un paese per morire da soli.
Sorridi in debito di luce,
capelli nuovi di chemio
e il libero arbitrio in una falange.
Si tratta di un’indicazione di poetica in ci l’io si cerca nell’altro, non si trincera nel proprio singolo affanno e non chiude la porta.
La poesia di Monica Messa è baciata da una grazia tutta sua, un modo di fare gentile e trattenuto, senza quell’urlo che sempre rischia di ferire l’altro che non si può difendere. L’altro, il davanti a noi, interroga noi stessi, la nostra memoria, la causa di ciò che siamo diventati adesso. A volte le parole assumono il colore di lieve favola dell’infanzia, abitata da bambini cresciuti in fretta senza aver ancora chiuso i conti con la vita.
La bambina di rame e di miele
appende foglie alle orecchie
e si sente una regina.
Ancora non sa che le vespe
ricompensano i fichi con la vita.
Lo sfondo di questa poesia, è un nero dipinto nel presente e un azzurro preservato in qualche ricordo dell’infanzia. E poi c’è un terzo colore, uno che deve ancora avvenire e che solo il viaggio può evocare: “Stelle, stelle, stelle / polvere di brina caduta nel firmamento / cellule di vita nel plasma dell’infinito, / bottoni diamanti nei sul nero drappo / di velluto che racchiude lo spazio”.
I luoghi del presente sono luoghi descritti come non amati, a cui non si deve nulla; senza dolori, ricordi; freddi e asettici come “la tenda di una doccia / su cui scivola acqua saponata”.
Amo i luoghi che non amo.
Le mense e i tavolini in laminato,
i bagni tutti bianchi
con le salviette di carta riciclata.
I luoghi che non amo,
a cui non devo nulla.
Non devo essere felice,
in questi luoghi,
non devo divertirmi,
non devo piangere,
nemmeno pregare.
Posso annullarmi,
scomparire a me stessa e agli altri,
diventare trasparente, un fantasma.
Non c’è dolore in questi luoghi,
non ci sono ricordi,
solo la tenda di una doccia
su cui scivola l’acqua saponata.
La poesia, insomma, si configura come arma a doppio taglio: bisturi che affonda nella realtà, svelandola, ma anche nella propria stessa carne, rivelandone la fragilità e il desiderio di amore.
In una sequenza in corsivo del libro, Messa sembra coltivare un impellente desiderio di fuga. Appare un marinaio, le stelle, il silenzio, un treno che corre nella notte. Tutta la sequenza suggerisce un incontro mancato, conferendo alla parola quella dimensione di mancanza e attesa che sempre deve appartenere alla poesia. Ciò che resta è la descrizione di un paese. Non il pieno delle cose ma il loro sottrarsi.
Nel mio paese c’è un binario
e un passaggio a livello fra i ciliegi.
Vengono dalla città
e dai paese limitrofi
a suicidarsi.
Perché un paese ci vuole,
un paese per morire da soli.

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