Rossella Valdrè, La nobiltà degli inermi

 

Rossella Valdrè, La nobiltà degli inermi, MC, 2024




Sia chiara una cosa: di fronte a libri come questi, la cui forma è innestata profondamente nella vita, la critica perde la sua forma e ne deve cercare un’altra.

E’ la stessa necessità che sente Rossella Valdrè di fronte alle sue parole: dice che avrebbe potuto scrivere un saggio, ma le succedeva di sentire un’urgenza interna, il bisogno di utilizzare l’unica parola riconosciuta come veramente essenziale, e cioè la poesia.

La poesia, dunque, sa cogliere l’essenza delle cose; in questo caso il contenuto del libro, ampiamente documentato da un racconto introduttivo della stessa Valdrè, dalla nota di Pasquale Di Palmo e da uno scritto di Franca Grisoni, è il racconto del ricovero dell’anziana madre presso una RSA (Residenza sanitaria assistita). Si tratta di un libro inquietante, che ci mette di fronte a ciò che saremo e a ciò che accadrà, libro crudo e a tratti crudele, come sa essere la vita.

Naturalmente la parola si espone come cronaca e diario, in cui il privato sposa la dimensione collettiva del dolore, a volte persino della denuncia e del rimprovero.

Ora, a costo di risultare ripetitivo: ho scritto in varie occasioni come la poesia sia costretta a spogliarsi delle sue retoriche di fronte all’esperienza del dolore e della perdita dei propri cari. E’ la prova più radicale della tenuta della parola perché, cadendo l’armamentario dello stile e degli stratagemmi - quelli personali, o quelli del gruppo, dei maestri, dell’entourage a cui ci sentiamo di appartenere - noi spogliamo la parola, la mettiamo di fronte alla necessità della privazione. E’ uno dei pochi momenti, credo, in cui poesia e biografia possano felicemente convivere.

E’ interessante poi notare come la questione finisca per riguardare in modo così drammatico un’opera prima, la quale, da subito, si ritrova a non avere appigli, non può attingere a scuole, non può nominare poeti. “Sono sempre una psicanalista”, esclama ad un certo punto Rossella Valdrè, e mi sembra un bene. Il letterato che sempre e comunque ci abita, qui deve ritrarsi, perché, ponendosi in primo piano, rovinerebbe tutto. Naturalmente il “suggeritore” per nulla celato di questo libro è la psicanalisi, laddove, trascorso il momento dell’impatto emotivo, ora la figlia si pone domande e possibili risposte. Se la pratica della meditazione, per un poeta, coincide pressappoco con la sua poetica, qui è sostituita dalla voce razionale dell’indagine psichica, accogliendo però un suggerimento, e cioè la forza potentemente immaginativa della poesia, la possibilità di scoprire metafore, di allontanare e avvicinare le esperienze come un elastico, ricavandone altri sensi, altre possibilità di indagine. Forse è questo il motivo per cui Rossella Valdrè, invece di scrivere un saggio, si rivolge alla poesia, lingua che non è grado di capire e spiegare ma di accogliere il mistero.

Questa dimensione conoscitiva, affiancata sempre dal calore a fuoco vivo delle emozioni, accade nella seconda parte del libro, quando la madre, dopo la drammatica esperienza del covid, trova una sistemazione abitativa e cure più consone.

Inutile dire che il libro innesca un doloroso quanto schietto romanzo di formazione tardiva. La poetessa non si sottrae alla stessa sincerità che la psicanalista chiede al suo paziente, ritrovandosi così nella situazione di un’autoindagine interiore e coinvolgendo a un certo punto anche il sentimento sociale, collettivo, dell’abbandono. Perché la madre, qualsiasi madre, è sempre madre di ognuno, di tutti.

Il passo alla critica sociale è breve: “L’uomo / distrugge il pianeta! / La festa / del luogo comune, qui / non entra. / Né ieri né domani / a che serve il giudizio? Pace / all’atemporalità, dove / nulla importa davvero, al di fuori / di terminare un’altra giornata”, (La festa dei luoghi comuni).

E’ la passività descritta da Freud col termine inermità, una condizione piacevole di passività, del piacere di ricevere accudimento, l’esperienza che avvicina l’anziano al ritorno al grembo: “mi consolo pensando - / un piacere della passività, / lasciare che l’altro faccia / quello che vuole; / è pur intriso di questo / l’umano”, (Inermità).

La riflessione più alta, allora - che costituisce anche il tentativo di disarmare il dolore, di sottrarlo all’incedere del tempo - riguarda la ripetizione del gesto, una ripetizione infinita, sempre uguale a se stessa. Come quella dei bambini che, con un bicchiere o un secchiello, lo riempiono e lo svuotano senza sosta “per colmare il mare, più e più volte, / piacere folle della ripetizione”.

Il piacere, commenta Rossella Valdrè, abita “nell’assoluto inutile / del puro ripetere / nel sapere che non cadrai / che non sprofonderai, / che qualcuno ti guarda, / il tuo qualcuno”, (Bambini al mare).

L’immagine di questi bambini che giocano, viene ripetuta successivamente in una condizione, ora di quiete, osservando la madre serenamente adagiata nel suo letto:


Quiete


Invidio, forse,

questa quiete?

Che tu sia così accudita,

il bisogno soddisfatto, pur

senza desiderio;

il quieto vociare, intorno

giorni che scorrono

placidi,

piccoli gesti ripetuti,

rarissime

sorprese, sai sempre

cosa accadrà.


Invidio, forse,

la ripetizione senza affanno,

come il bambino col secchiello

riempie inutilmente il mare,

felice, del puro, puro

ripetere.

Niente altro.


L’invidia della ripetizione, infine,  è espressa con un dubbio: “Invidio, forse / questa quiete?” Chi possiede in pienezza la vita non può accettarne fino in fondo lo scardinamento, la rottura del cordone ombelicale che ci lega al tempo e alla madre. Dubita, anche se spera nel refrigerio del dolore, bloccato nel fotogramma che cancella il ricordo. In questa dimensione del dubbio il libro di Rossella Valdrè espone la sua innocente fragilità, il suo proporsi in forma di medicamenta, di eserciziario per continuare a vivere: “Devo maneggiare / la morte, / faccio le prove. / Che magnifica palestra!”, (Devo maneggiare la morte).



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